L’OLIVICOLTURA MEDITERRANEA DI FRONTE AI CAMBIAMENTI CLIMATICI

 

di Ercole ALOE (*)

 

Giugno 2022

 

Panoramica attuale

Secondo i dati registrati dalla più antica stazione di rilevamento che si trova alle Hawaii, è da settembre 2016 che i livelli di CO2non scendono al di sotto di 400 parti per milione (ppm) e ciò rappresenta un nuovo record mondiale. La causa è da individuare, principalmente, nell’eccessivo utilizzo di combustibili fossili, a cui si associa un fenomeno periodico di riscaldamento delle acque del Pacifico tropicale conosciuto come “El Niño”: è ormai ben noto, infatti, che l’elevata concentrazione di anidride carbonica e altri gas-serra siano i principali responsabili del riscaldamento globale. Rispetto ai livelli registrati in periodi preindustriali, è stato registrato un aumento medio della temperatura del pianeta di 1,1°C. Nel lungo periodo, l’aumento della temperatura globale si prospetta di ben 3°C, livelli oltre i quali la “febbre” del pianeta potrà provocare effetti devastanti, con inondazioni, siccità e scioglimento dei ghiacciai, tutti fenomeni già attualmente in corso.

Il bacino del Mediterraneo risulta influenzato più particolarmente dai cambiamenti climatici. La regione mediterranea è, infatti, considerata uno dei “punti caldi” dei cambiamenti climatici, con un riscaldamento che supera l’aumento medio globale del 20% e una diminuzione delle precipitazioni, in contrasto con l’aumento generale del ciclo idrologico nelle aree temperate, tra i 30° e i 46° gradi di latitudine (Dati ISTAT 1961 – 2020). Una delle conseguenze già verificatesi negli ultimi anni è stato l’aumento delle temperature minime, in particolare in inverno e nei primi giorni di primavera (Hertig e Jacobeitb, 2008; Giorgi, 2006). Inoltre, si registra una consistente riduzione delle precipitazioni ed un incremento della loro variabilità interannuale e interregionale. La tropicalizzazione del bacino mediterraneo ha favorito la formazione di pseudo-cicloni, cioè precipitazioni torrenziali che vengono comunemente chiamate “bombe d’acqua”. La media dei millimetri di pioggia che si prevede cadranno fra il 2000 e il 2050 varierà nelle diverse zone del bacino del Mediterraneo da -200 a +145 mm., con una consistente riduzione delle precipitazioni anche nella zona del Mediterraneo centrale che corrisponde al Sud Italia (Tanasijevic et al., 2014).

 

Rischi reali per il settore olivicolo

In questi ultimi anni in diversi areali olivicoli mediterranei, è stata riscontrata un’esplosione di attacchi fungini e di altri parassiti. In particolare, sono stati segnalati attacchi di occhio di pavone (Fusicladium oleagineum), e di Tignola verde dell’olivo o Margaronia (Palpita vitrealis). Negli ultimi anni, gli attacchi di Margaronia sono diventati sempre più frequenti e, poiché l’attività trofica delle larve di questo lepidottero può causare la distruzione dei giovani germogli provocando l’arresto dello sviluppo della pianta, si determinano ingenti danni, soprattutto nei nuovi impianti. A causa degli inverni miti, è stato riscontrato, inoltre, un aumento del numero dei cicli della Tignola (Prays oleae). Anche la dinamica di sviluppo delle popolazioni della Mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), in anni recenti, ha presentato delle anomalie rispetto alla media. I mesi invernali, piuttosto miti, oltre a consentire la sopravvivenza di un numero maggiore di forme svernanti dell’insetto, determinano anche un anticipo nello sviluppo vegetativo e quindi produttivo dell’olivo, rendendo le drupe recettive agli attacchi della mosca già quindici giorni prima della norma, costringendo gli olivicoltori ad anticipare i trattamenti. Negli ultimi anni sta preoccupando una malattia “riemergente”, la Lebbra dell’olivo, malattia fungina causata da Colletotrichum gloeosporioides, nota già nel dopoguerra nelle zone di coltivazione meridionali d’Italia, ma la cui estensione negli ultimi 15 anni, in seguito all’aumento delle temperature medie stagionali e dell’umidità relativa, è stata segnalata anche in altre regioni d’Italia (Sicilia, Calabria, Puglia, Toscana, Umbria, Marche, Liguria e Lombardia) (Vatrano et al., 2016). Gli effetti dei cambiamenti climatici, in termini di aumento delle temperature, cambiamento nella quantità e distribuzione delle precipitazioni, siccità, aumento dei livelli di anidride carbonica e ozono, possono avere una pesante ripercussione su incidenza e gravità delle malattie e influenzare la stessa coevoluzione delle piante e dei loro patogeni (Garrett et al., 2006; Crowl et al., 2008; Eastburn et al., 2011). Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che la temperatura può influenzare direttamente la degradazione delle molecole chimiche, modificando indirettamente penetrazione, traslocazione, persistenza e meccanismo d’azione di molti fungicidi sistemici (Coakley et al., 1999).
Tale quadro generale, deve ritenersi applicabile all’intero bacino mediterraneo.

 

Come cambia la fenologia e maturazione delle olive

L’olivicoltura del bacino del Mediterraneo, così come l’intero settore agricolo, si trova a dover fronteggiare gli effetti dei cambiamenti climatici in corso. L’estrema variabilità climatica fra le annate e le stagioni influisce sia sugli aspetti fenologici dell’olivo, con anticipazione della fioritura e della maturazione delle olive e di conseguenza anche della produttività, sia sulle caratteristiche nutraceutiche e organolettiche dell’olio, con particolare riferimento alla composizione in acidi grassi. È noto che l’olivo ha necessità di un determinato numero di giorni di freddo per indurre la fase di iniziazione delle gemme fiorali: inverni più miti determineranno una fase vegetativa quasi ininterrotta, incidendo negativamente sulla differenziazione fiorale. Di conseguenza, in alcuni areali gli olivi sono costretti ad emettere nuova vegetazione e già nei primi giorni del mese di marzo è stata riscontrata la fase di mignolatura, ossia, l’emissione delle mìgnole, negli ulivi, per numerose cultivar precoci. In alcuni areali, l’anticipo della fioritura potrebbe lasciare le mìgnole, ovvero, le infiorescenze in stato avanzato degli ulivi, che precedono di poco la fioritura vera e propria, esposte ad improvvisi ritorni di freddo, con conseguente compromissione della vitalità delle stesse. Inoltre, l’aumento della temperatura media primaverile può determinare una ridotta emissione di polline; e picchi giornalieri di molto superiori ai 30°C potrebbero causare aborto dell’ovario (Diez et al., 2016). La sede di Rende (Calabria) del CREA, Consiglio italiano di ricerca in economia agraria, sezione specializzata in Olivicoltura, Frutticoltura e Agrumicoltura, effettua da anni rilievi fenologici su tutte le cultivar presenti (circa 500) nel Campo collezione del germoplasma di Mirto Crosia (provincia di Cosenza): dal confronto fra le epoche di fioritura degli ultimi 10 anni è stato riscontrato, in media, un anticipo di circa 15-20 giorni nell’epoca di fioritura. Le osservazioni di campo e i dati sperimentali hanno evidenziato una generale tendenza alla precocità delle fasi fenologiche tra cui l’epoca di fioritura, in linea con le previsioni di alcuni autori (Moriondo et al., 2008; Garcia-Mozo et al., 2010). Pertanto (Tanasijevic et al., 2014), si prospettano un anticipo di fioritura nel bacino Mediterraneo di 11 giorni (+/- 3) in media con un maggiore scostamento atteso (fino a 18 giorni) nelle aree costiere. Studi recenti (Benlloch-González et al., 2019; e Tupper, 2021), hanno inoltre dimostrato come l’epoca di fioritura degli olivi sia strettamente dipendente dalle temperature dei primi giorni del periodo primaverile che, mediamente, in questi ultimi anni hanno presentato un notevole incremento. Inoltre, è stato osservato un anticipo della fase di invaiatura variabile tra 17 e 30 giorni, ma con una fase di maturazione, in cui si verifica la lipogenesi e accumulo di olio nella drupa, più lenta della norma, da cui è risultato anche un accumulo di olio ridotto di circa il 30% (sul peso fresco del frutto).

Ma è importante evidenziare che ad essere influenzate dalle condizioni ambientali sono anche le componenti qualitative dell’olio di oliva. E’ noto che gli oli prodotti in ambienti più freddi sono più ricchi in acidi grassi insaturi, la cui ragione biologica può essere connessa al loro maggiore potere energetico, che conferirebbe alle cellule una maggiore resistenza alle basse temperature. Nelle zone con climi relativamente freddi anche il contenuto in fenoli totali negli oli tende ad essere più elevato. L’alto contenuto in acido oleico e in fenoli conferisce particolare pregio all’olio. Le alte temperature, durante il periodo che va dall’allegagione (ossia il periodo in cui le drupe, ancora giovani dopo la fioritura, restano attaccate al ramo, avviandosi verso la crescita e la maturazione) fino alla completa maturazione delle drupe, determinano un decremento nel contenuto di acido oleico, accompagnato da un incremento degli acidi palmitico e/o linoleico (Lombardo et al., 2008); temperature molto elevate causerebbero, inoltre, una riduzione del contenuto di polifenoli totali (Ripa et al., 2008).

Pertanto, quando le temperature rimangono elevate lungo il ciclo di maturazione dei frutti, molte varietà autoctone danno un olio con una bassa percentuale di acido oleico (< 70%) ed un alto contenuto di acido linoleico (> 10%). In queste condizioni, gli oli prodotti non sono in grado di garantire il normale equilibrio degli acidi grassi insaturi/saturi, evidenziando una carenza nel contenuto in sostanze antiossidanti (soprattutto sostanze fenoliche e tocoferoli) e facendo rilevare, di conseguenza, un mediocre profilo sensoriale.

 

Impatto su suolo e stato idrico

Le alte temperature hanno effetti di rilievo sul suolo, in termini di aumento del tasso di decomposizione e mineralizzazione della sostanza organica, che riduce la capacità dei suoli di sequestrare carbonio (Wright et al., 2005), con rilascio di CO2 in atmosfera e perdita di fertilità chimica; anche il ciclo idrologico del suolo è influenzato dell’aumento della temperatura, che causa una maggiore perdita di acqua per evapotraspirazione, con conseguente riduzione dell’acqua disponibile. A subire gli effetti dell’innalzamento termico è, inoltre, l’attività metabolica della microflora: infatti, sebbene le attività microbiche siano positivamente influenzate dall’incremento termico, temperature troppo elevate possono diventare limitanti. A causa dei cambiamenti climatici, è prevista una riduzione netta delle precipitazioni e, quindi, una maggiore richiesta di irrigazione netta (Nir), soprattutto nelle aree orientali e meridionali del Mediterraneo, caratterizzate da condizioni di particolare aridità. In generale, si prevede un aumento di Nir in ogni area del Mediterraneo per il 2050, con un incremento generale di circa il 18,5% (o di 70 millimetri di acqua, ossia +/- 28 millimetri) a stagione (Tanasijevic et al., 2014). Nonostante si tratta una specie xerofila, probabilmente in un futuro prossimo la coltivazione dell’olivo, sfruttando soltanto le precipitazioni atmosferiche, potrebbe non essere più praticabile. La carenza idrica per lunghi periodi di tempo può deprimere l’assorbimento di azoto (Alfei et al., 2013) e probabilmente di altri componenti minerali, con conseguenze negative sulla crescita dei germogli e sulle future gemme, pregiudicando in tal modo la successiva produzione. Il deficit idrico influenza la maturazione delle drupe, che si verifica in anticipo e in tempi più rapidi, con conseguente incrementato fenomeno di cascola pre-raccolta. Inoltre, è necessario un certo apporto idrico durante determinate fasi di sviluppo della drupa per evitare una scarsa inolizione (ossia, il periodo di formazione del grasso mediante l’afflusso di materia cerosa/oleanolo; la formazione di acidi grassi; e la formazione del grasso neutro). Questa serie di fattori potrebbe, in parte, spiegare la sensibile perdita di produzione e di qualità osservata in questi ultimi anni in numerosi areali olivicoli mediterranei, tra cui spiccano quelli italiani: purtroppo, in numerosi areali olivicoli da Nord a Sud dell’Italia sono stati segnalati casi di mìgnole, a diversi stadi, “bruciate” dall’intensa irradiazione solare e dai venti di scirocco. In alcuni areali meridionali si è vista, inoltre, la diffusione di una nuova emergenza, rappresentata da un insetto minore dell’olivo, il Tripide (Liothrips oleae) che, in particolari condizioni climatiche, può completare anche 4-5 generazioni all’anno, sfuggendo probabilmente al controllo degli insetti naturalmente antagonisti. I danni, spesso considerevoli, sono causati dalle punture trofiche delle forme giovanili o neanidi e degli adulti in varie parti della pianta: i germogli manifestano uno sviluppo stentato e tendono ad attorcigliarsi su sé stessi; le foglie assumono forme ad uncino e cadono precocemente; i fiori manifestano aborto dell’ovario e colatura; i frutti subiscono deformazioni con macchie brunastre e cascola precoce.

 

Strategie di resilienza

Ma quali sono le possibili soluzioni da adottare per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici sull’olivicoltura? L’obiettivo è quello di incrementare la resilienza rispetto ai cambiamenti climatici, cioè la capacità di adattarsi al cambiamento e di riuscire a fronteggiare gli effetti delle modificazioni del clima, cercando di trarre vantaggio da eventi che potrebbero, altrimenti, essere particolarmente traumatici. A tal proposito, sono state individuate tre strategie principali: il miglioramento genetico, lo stress idrico controllato e la gestione biologica dell’oliveto.

Il miglioramento genetico, sia convenzionale che non convenzionale, è una strategia utile al fine di selezionare e/o sviluppare cultivar con caratteri di resistenza agli stress biotici e abiotici; lo stress idrico controllato, consente di fornire all’oliveto la quantità minima di acqua sufficiente affinché non sia alterata la produttività ma, anzi, venga favorito un miglioramento delle caratteristiche organolettiche e nutraceutiche del prodotto, con un significativo risparmio delle risorse idriche; infine, le buone pratiche agronomiche di gestione, in biologico, dell’oliveto, favoriscono una produzione più salubre e sostenibile, evitando l’erosione del suolo. Per ovviare ai cambiamenti fenologici correlati a quelli climatici, si dovranno impiantare cultivar meno suscettibili alle variazioni ambientali, in termini di spostamento dell’epoca di fioritura e con fabbisogno in freddo minore. Per contrastare i problemi legati alla scarsità d’acqua per l’irrigazione, sarà necessario:

  • ricorrere all’impianto di cultivar resistenti o tolleranti la siccità, prediligendo possibilmente varietà autoctone, già adattate alle condizioni pedo-climatiche;
  • attivare programmi di miglioramento genetico che favoriscano lo sviluppo di cultivar con caratteri di resistenza allo stress idrico;
  • quando possibile, applicare i criteri dello “stress idrico controllato”, che consente di fornire all’oliveto la quantità minima di acqua sufficiente affinché non sia alterata la produttività, ma anzi venga favorito un miglioramento delle caratteristiche nutraceutiche del prodotto, con un significativo risparmio delle risorse idriche.

Per quanto riguarda la difesa dagli stress biotici, risulta importante uno studio più approfondito del ciclo di ogni patogeno in relazione ai cambiamenti climatici e, dove necessario, un numero maggiore di trattamenti, sia in ambito di agricoltura biologica che integrata, coscienti della conseguenza di un aumento dei costi per gli olivicoltori e la probabilità che le piante così protette possano attivare meccanismi di resistenza agli antiparassitari (Juroszek e Von Tiedemann, 2011). È auspicabile, inoltre, l’avvio di programmi di miglioramento genetico, al fine di sviluppare nuove cultivar resistenti agli stress biotici.

 

Potenziale di sequestro del carbonio dell’oliveto

Infine, bisogna ricordare che l’olivo non è solo una coltura da tutelare rispetto ai cambiamenti climatici, ma può diventare essa stessa strumento di difesa per evitare l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera. Gli oliveti, sia rappresentati da olivi secolari millenari, sia dai nuovi impianti intensivi e super-intensivi risultano, infatti, fra le colture più interessanti per lo stoccaggio della CO2. È stato osservato come, già dal quarto anno dall’impianto, il bilancio fra sequestro del carbonio ed emissioni può diventare positivo, evidenziando come l’oliveto diventi rapidamente uno strumento in grado di sequestrare carbonio (Brunori et al., 2014). Anche la razionale gestione del suolo può contribuire alla riduzione di emissioni, riducendo il depauperamento della fertilità, con conseguente accumulo di sostanza organica. Fra le buone pratiche agronomiche conservative, risultano importanti:

  • la trinciatura del cotico erboso, insieme ai residui di potatura;
  • il sovescio delle leguminose(ossia, l’utilizzo della pratica agraria che consiste nel sotterrare nel terreno piante o parti di piante allo stato fresco, sia per correggere terreni troppo compatti, sia per arricchirli di sostanza organica e, se viene eseguita con piante leguminose, per introdurre nel suolo l’azoto atmosferico assimilato dai vegetali stessi);
  • l’ammendamento con sansa, adoperata come correttivo, ad integrazione dei concimi chimici (con conseguente riduzione delle emissioni correlate alla produzione di questi ultimi);
  • l’inerbimento controllato, che riducendo il ruscellamento e quindi l’erosione, favorisce l’infiltrazione, incrementa la disponibilità di acqua per la coltura e, inoltre, aumenta progressivamente il contenuto di sostanza organica nel terreno, limitando la perdita di biodiversità di microflora e microfauna;
  • la pacciamatura, operazione che tradizionalmente consiste nel cospargere il terreno di paglia, foglie secche, letame o altro, allo scopo di proteggere le colture da eccessiva insolazione (o dal pericolo di gelate), con sottoprodotti dell’industria olearia, permettendo il controllo delle infestanti senza il ricorso a interventi meccanici o chimici, con incremento della sostanza organica e riduzione dell’evaporazione;
  • l’eliminazione delle lavorazioni convenzionali (fresatura, aratura), soprattutto negli oliveti collinari.

Proprio sul fenomeno del riscaldamento globale, l’olivicoltura può quindi avere un impatto positivo sequestrando carbonio. Sappiamo che ogni volta che si produce un bene o si fornisce un servizio, otteniamo l’emissione di gas ad effetto serra, dall’inizio della produzione fino al consumo o smaltimento. L’impronta carbonica o carbon footprint (CF) è l’indice che misura tali emissioni e, quindi, l’impatto sul clima e può essere calcolata per tutte le attività umane. Una bassa impronta carbonica è sinonimo di qualità ambientale e, pertanto, può servire a produrre valore aggiunto per le aziende. Per contribuire all’ampliamento delle conoscenze inerenti tale tematica e fornire gli strumenti per quantificare il bilancio del Carbonio negli oliveti, attraverso il Progetto OLIVE4CLIMATE (https://olive4climate.eu/) finanziato dal Programma europeo LIFE, coordinato dall’Università degli Studi di Perugia, è stata analizzata la filiera olivicola-olearia nell’area mediterranea, considerando tutte le fasi della filiera, dalla produzione di olive all’imbottigliamento e/o allo stoccaggio dell’olio in azienda. Questo ha permesso di definire in aziende italiane, greche e israeliane sia il bilancio del carbonio relativo alla produzione di 1 litro di olio di oliva, ovvero la differenza tra emissioni e rimozioni di CO2, sia un insieme di strategie che possono essere adottate per ottimizzare il bilancio netto (ovvero ridurre gli assorbimenti e incrementare le emissioni) e, quindi, generare i “crediti di sostenibilità”, analogamente a quanto avviene nel settore forestale. Una volta recepiti dalle normative europee in materia ambientale, i crediti di carbonio potranno rappresentare una fonte di reddito integrativo per la filiera. Non sono ancora realtà, ma lo diventeranno una volta attivati i mercati volontari di scambio. Dal punto di vista tecnico, il mercato dei crediti sarà un sicuro incentivo ad indirizzare la gestione dell’oliveto e del frantoio verso quelle pratiche virtuose per la sostenibilità ambientale, quali la trinciatura dei residui di potatura in campo, la concimazione organica o il recupero del nocciolino dalle sanse.

 

Conclusioni

In base ai risultati finora acquisiti, si può concludere che, adottando a livello di bacino mediterraneo modelli colturali ad alta sostenibilità ambientale quali il miglioramento genetico, lo stress idrico controllato, le buone pratiche agronomiche conservative e di gestione, in biologico, dell’oliveto, tutte volte a favorire il sequestro del carbonio e a quantificarne il relativo bilancio negli uliveti, l’olio può addirittura ottenere e riportare una carbon footprint negativa.

Conseguentemente, si può affermare che l’olivicoltura mediterranea può contribuire a mitigare il cambiamento climatico in misura considerevole, poiché, applicando i suddetti modelli colturali in tutti gli areali del bacino mediterraneo, il sequestro del carbonio che si registra nell’oliveto risulta ovunque superiore alle emissioni dell’intera filiera olivicolo olearia. Questo è un risultato di grande interesse ambientale, economico e sociale e può avere anche un notevole impatto positivo sulle scelte del consumatore, cui sia trasmesso il concetto che consumare olio extravergine di oliva, prodotto secondo modelli produttivi a basso impatto ambientale (ossia con ottimizzazione del bilancio del carbonio), ha effetti benefici certi non solo sulla salute e sull’ambiente, ma anche sulla mitigazione del cambiamento climatico. Da ciò può derivare un importante valore aggiunto (e conseguente premio economico sul prezzo) per l’olio che, sommato alla possibilità di vendere “Crediti di sostenibilità”, contribuirebbe a mantenere in coltivazione oliveti attualmente a forte rischio di abbandono, nel rispetto della sostenibilità economica, sociale e ambientale, al fine di salvaguardare in maniera fattiva l’olivicoltura mediterranea.

 

(*)= Dottore Agronomo

Esperto di Ricerca del GAL Eloro nel Programma ENI CBC “Italia-Tunisia” 2014/2020, Progetto “CLUSTER SERVAGRI – CLUSTER trtansfrontaliero a SERVizio del networking e qualificazione delle filiere AGRIcole in olivicoltura”